Parma Il tabarro, la resdora, e il trito di salame. Poveri mangiari

Domenica 11 Febbraio 2018

Parma Il tabarro, la resdora, e il trito di salame. Poveri mangiari

Da piccolo ho sempre sognato, di intabarrarmi un giorno. Il tabarro, coperta dei cibacchi e dei cavallanti, così come dei gentiluomini emiliani che ancora consideravano punto di onore possedere la regalità di un manto a ruota, che se sei maestro nell’indossarlo con un sol gesto ti avvolge in modo impenetrabile. 

 

Ne posseggo due, uno di stoffa fine, eredità di mio padre, che indosso con religiosità. Non mi sento eccentrico, anche se come si usa dire al dì di oggi è riservato agli abbienti, il mio è solo storico, e non è per il costo che mi fa sentir figo, ma per i consensi che suscita, perché incuriosisce, provoca e seduce. Di tabarri ne ricordo di lunghi come di corti, quello dal maringon falegname, dal calsoler, del calzolaio, dal moliner e dal caser, del mulinaro e del casaro e quello tutto di lana scozzese dal sior padron del signor padrone. Avvolgeva te e racchiudeva spesso un qual cosa, che volevi portare in dono o preservare dal freddo, piuttosto che occultare ad occhi indiscreti, era un poco come il grembiule della rezdora, all’occorrenza diventava un piccolo nascondiglio. E questa volta usiamo il tabarro per nascondere un piatto a poveri mangiari. Si perché abbiamo indossato il tabarro del masén norcino. Finita la mattanza, abbiamo fatto un peccato, speriamo sia considerato veniale, visto il desiderio la voglia e l’appetito dei figli; abbiamo incartato un pugno di macinato di salame Felino per fare una sorpresa a casa, per un piatto che si discosti un poco dai poveri mangiari, questa sera sarà una cena di gran lusso. Mentre il nostro norcino era a far su le carni del povero porco, immaginate la moglie che fra le pecorelle di neve ha raccolto i primi grugni di campo che mondi son nel secchiaio, immaginate anche che il fuoco lingueggi nell’annerito camino. Immaginate, perché oggi oltre a non metter nel piatto un povero mangiare, ma un mangiare, spero di riempirvi lo stomaco con l’aiuto della vostra immaginazione. Immaginate il tavolo con la tovaglia a quadrettoni bianchi e blu, i primi bicchieri infrangibili, che chi non li ha più o li ha bianchi dovrebbe ricordare, … qualche piatto di terra cotta ed un fiasco impagliato e macchiato di vino al centro, … una brocca di acqua di fonte … qualche seggiola di legno sagomato con la sgorbia e impagliata coi scartoc che sarebbero le foglie che racchiudono la pannocchia di mais, magistralmente intrecciate … e la luma a petrolio che scende dal trave centrale. Si, questo piatto mi andava proprio per conferirgli, come al tabarro una nobiltà, mi andava, di ambientarlo qui, in un contesto povero ma di assoluto rispetto. La reggia delle resdore, regine che si son fatte cenerentole ed hanno contribuito a tutto quel buono che oggi ci permette di scrivere e di cibarsi, frutto del loro amore, della loro inventiva e fantasia. Donne che spesso hanno lasciato che il loro aspetto florido, avvenente e seducente, si spegnesse fra le mura domestiche, donne, che hanno messo se stesse in un piatto per il piacere di lui come forse solo le parmigiane san fare. Prendete giusta padella di ferro e messa al fuoco fate andare il trito, un attimo prima che il trito sia fatto aggiungete un uovo a 100gr di trito. Togliete dal fuoco mischiate e servite, di contorno avrete il radicchio verde di campo.

 

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